La letteratura nel dialetto: “Mal de scigne” e “Vasenecóle”

NOCI – Immaginare dialetto e letteratura a braccetto è per molti pura fantasticheria. Si potrebbe obiettare che non mancano e continuano a prodursi opere letterarie elaborate in lingue locali, e di esempi – illustri e meno noti – ve ne sono tanti; non è semplice supporre, invece, l’operazione inversa, ovvero l’ipotesi che la letteratura già esistente eserciti un influsso rilevante sul dialetto.
Le ragioni che inducono a credere nella repulsione reciproca dei due mondi sono molteplici, a partire dalla variazione diamesica, ma anche per contenuti, registro, forma. Eppure, dovete crederci, le prove della mutua influenza sono sorprendenti per quantità e bellezza, a conferma del fatto che il dialetto non resta confinato nelle mura del paese, ma le attraversa per incontrare e assorbire il mondo.
Qualcuno, adesso, starà storcendo il naso e da perfetto incredulo avrà esclamato: na póte’ésse! Peccato, perché così facendo allontana la meraviglia e forse sceglie di terminare qui questa lettura. Così sia. Gli increduli che, diversamente, si pongono la domanda pót’ésse? hanno deciso di accettare la meraviglia e di scoprirne di più. Dunque, che questo viaggio straordinario in meandri ancora inesplorati cominci.

Cerchiamo intanto di capire cos’è e per quale motivo nasce la letteratura. La funzione atavica delle lettere non è dare risposte – per trovarle è più opportuno interrogare religione e filosofia –, ma accogliere ed elaborare i tormenti dell’uomo, i suoi dubbi esistenziali, l’inquietudine e le angosce: i grandi temi intorno a cui ruota da secoli la produzione letteraria sono l’anima, l’amore, la morte. Consideriamo quest’ultimo soggetto: migliaia di miti, racconti, fiabe e favole, poemi e romanzi sono stati sviluppati per vivisezionare, con serietà o ironia, la disperazione che produce nell’uomo tale assillo. Che cos’è la morte? C’è qualcosa dopo la morte? Perché si muore? Quali sono gli effetti della morte sul corpo e quali quelli sull’anima? L’argomento è così vasto e già ampiamente indagato che non c’è motivo di approfondirlo in questa sede. Bisogna chiedersi, piuttosto, in quali “luoghi” del dialetto possano annidarsi silenziosamente questioni tanto gravose. Incredibile, esse sono sotto gli occhi di tutti, nei proverbi e in alcuni vocaboli della lingua locale. È Aristotele a spiegarci cos’è il proverbio popolare, con una definizione quanto mai esaustiva: «La storia della sapienza è ciclica, gli uomini giungono a essa e poi la perdono a causa di grandi catastrofi che sconvolgono le comunità umane. Ma dalle catastrofi, che distruggono i ricordi tradizionali, si salvano i proverbi. I proverbi sono sapienze distrutte trasmesse ai posteri dai sopravvissuti».
Il compito filologico che ci assumiamo non è dei più semplici, ma resta senz’altro avvincente: proveremo a individuare le tracce di scritti antichi e moderni presenti nelle espressioni della nostra lingua madre, cercando poi di ricostruire un quadro ricco di riferimenti e connessioni.

 

La morte stupida: un antico racconto indiano nel detto “Mal de scigne

Mal de scigne è un’espressione arcaica e ormai in disuso del dialetto nocese, spesso introdotta dai verbi fenèssce, pèrde, murì. Prendendo in considerazione il verbo morire, il detto completo è Murì de mal de scigne, morire di male di scimmia, che significa perdere la vita per imperizia, spavalderia, avventatezza, stupidità. Nel dialetto nocese la parola scimmia si pronuncia signe, e il motivo per cui questa espressione si è tramandata nel tempo con la variante scigne è presto detto: si tratta, difatti, di un proverbio campano, già diffuso nel XIII sec. e presente anche ne Lo cunto de li cunti di Basile, scritto in lingua napoletana. Dalla Campania è giunto in area apulo-barese, rimanendo inalterato foneticamente e semanticamente nella nostra parlata locale.
Ebbene, nel detto Murì de mal de scigne la letteratura incontra il dialetto, perché quest’espressione racchiude un racconto presente nel Pañchatantra (o Panchatantra o Panciatantra), la più antica raccolta di favole indiane scritte in sanscrito, di datazione incerta e risalente forse al II secolo d.C. La raccolta fu tradotta nel 700 quasi contemporaneamente in arabo e in ebraico, nel 1200 in latino dall’ebraico da Giovanni di Capua, poi dal latino in spagnolo e tedesco verso la fine del 1400. Nel 1548 è tradotta in italiano da Agnolo Fiorenzuola. Il Pañchatantra è composto da settanta favole tutte finalizzate all’insegnamento della morale utilitaristica.
Proponiamo una versione in italiano contemporaneo del racconto che ha ispirato il modo di dire oggetto del nostro studio, lasciando al lettore deduzioni e commenti:

«Una scimmia, che aveva osservato con grande attenzione tutti i movimenti di un taglialegna, quando costui si fu allontanato per pranzare a casa sua lasciando incustoditi i suoi strumenti di lavoro, senza conoscerne il fine prese la scure e si mise a tagliare un querciolo. Muovendosi come aveva visto fare al suo maestro, cercò di estrarre il cuneo dal taglio fatto nel tronco senza curarsi di inserirne un altro più in basso, affinché il tronco non si ripiegasse su se stesso. Così il querciolo si rinserrò e un piede della scimmia vi rimase incastrato, intrappolandola. L’animale cominciò a urlare per il dolore, e i suoi lamenti attirarono l’attenzione del taglialegna di ritorno dal pranzo. Costui, essendo un uomo rozzo, invece di aiutare la scimmia, le gettò la scure in testa, ammazzandola. Come si suol dire, mal fanno coloro che improvvisano il mestiere altrui».
 

Vasenecóle: la Canzone del basilico e il Decamerone

Il termine vasenecóle indica in quasi tutte le parlate meridionali il basilico. A Noci il vocabolo si usa per distinguere il basilico a foglie larghe da quello a foglie strette, che è chiamato basìleche rizze.
Il lemma è composto dal latino basium, bacio, e dal nome proprio di persona Nicola, pertanto la traduzione letterale italiana è “bacio-Nicola”. Se vi state chiedendo cosa unisca il significante vasenecóle al significato di basilico, due concetti apparentemente estranei, sappiate che il collegamento è forte e ha a che fare con una delle più grandi opere della letteratura italiana: il Decamerone di Giovanni Boccaccio.
Partiamo dal principio. Nel Medioevo si diffuse oralmente in area messinese una ballata popolare in lingua siciliana, la Canzone del basilico, un lamento e un’invocazione di vendetta. Il testo originale è andato perduto, ma ci è giunto nella traduzione in toscano del 1300, inserita nella raccolta di Carducci Cantilene e ballate, strambotti e madrigali nei secoli XIII e XIV, pubblicata a Pisa nel 1871.

«Qual esso fu lo malo cristiano
che mi furò la mìa grasta
del bassilico mio selemontano?»

(Chi fu il furfante che mi sottrasse il mio vaso di basilico salernitano?)

comincia la ballata dell’anonimo autore siculo, descrivendo poi il dolore acuto di una giovane donna per il furto della sua rigogliosa pianta di basilico:

«[…] Suo ulimento tutta mi sanava,
tant’avea freschi gli olori;
e la mattina, quando lo ‘nnaffiava
a la levata del sole,
tutta la gente si maravigliava:
– Onde vien cotanto aulore? –
e io per lo suo amor – morrò di doglia.

E io per lo suo amor morrò di doglia,
per l’amor de la grasta mia.
Fosse chi la mi rinsegnar di voglia,
volontier la raccateria;
cento once d’oro ch’i’ ho ne la fonda
volentier gli le doneria,
e doneria- gli un bascio in disianza».

(Il suo profumo mi dava benessere, tanto era intenso e fresco; e all’alba, quando lo innaffiavo, la gente esclamava meravigliata: – Da dove proviene un così buon profumo? – e io per amor suo morirò di dolore. E io per amor suo morirò di dolore, per amore della mia pianta. Se saprò chi me la può riconsegnare, la ricomprerò volentieri; donerò volentieri le cento once d’oro che ho da parte, e darò un bacio carico di desiderio).

Pur rielaborata in toscano, la Canzone del basilico è evidentemente di area siciliana: basti considerare i lemmi malo cristiano, grasta, chiantai, meschinella, m’avia (mi aveva), accattai, raccateria (futuro di accattai), raputo e saputo, rimasti inalterati nella traduzione toscana. La metrica e lo stile, poi, sono tipici della khargia arabo-spagnola, il lamento della giovinetta in attesa dell’amato lontano, la cui caratteristica è la ripresa dell’ultimo verso di una strofa in apertura della successiva.
Da questo canto popolare, oltretutto, deriva un altro detto del dialetto nocese: Candè a graste, cantare il vaso, che significa vendicarsi verbalmente, dire all’altro verità spiacevoli, proprio come fa la povera fanciulla che ha subìto il furto del vaso di basilico.
Torniamo, però, a vasenecóle, perché non è ancora del tutto chiaro il legame del termine dialettale che sta per basilico con la ballata siciliana e col Decamerone.
Il Boccaccio soggiornò a Napoli dal 1325 al 1340 ed ebbe modo di leggere o più probabilmente di ascoltare la Canzone del basilico. La vicenda della tormentata fanciulla ispirò lo scrittore toscano, che decise di dedicarle la novella Lisabetta da Messina, la quinta della quarta giornata, in cui in un’atmosfera mesta «si ragiona di coloro li cui amori ebbero infelice fine». In sostanza, il Boccaccio narra l’antefatto della Canzone del basilico sulla base di una leggenda popolare sicula che descrive un amore ostacolato.
Ecco, in sintesi, la novella.
A Messina vivono Lisabetta, bella e non ancora sposata, e i suoi tre fratelli, ricchi mercanti toscani, al servizio dei quali c’è il collaboratore Lorenzo, un giovane pisano gentile e di bell’aspetto. Ben presto Lisabetta e Lorenzo s’innamorano. Una notte, mentre Lisabetta raggiunge l’amante, viene vista da uno dei fratelli, che l’indomani riferisce il fatto agli altri e li coinvolge per salvare l’onore della famiglia. Così, i tre mercanti uccidono e seppelliscono Lorenzo, riferendo in giro di averlo mandato lontano per lavoro. Lisabetta chiede insistentemente del giovane, ma non ottiene risposte. Una notte, Lorenzo le appare in sogno e le rivela la sua terribile fine, indicandole il punto in cui è seppellito il suo cadavere. Il giorno seguente, con un pretesto, Lisabetta esce di casa e raggiunge il luogo in cui giace il corpo dell’innamorato, cui stacca la testa con un coltello per darle degna sepoltura. A casa, poi, dopo aver lavato il capo di Lorenzo con le lacrime, lo pone in un grosso vaso, piantandovi del basilico, che, innaffiato col suo pianto continuo, cresce rigoglioso e profumato. Informati dai vicini dello strano attaccamento della giovane al vaso di basilico, i fratelli glielo sottraggono, individuando la testa putrefatta di Lorenzo. Temendo che il loro reato venga scoperto, scappano a Napoli, lasciando morire Lisabetta di dolore.
È lo stesso Boccaccio a sottolineare il nesso della storia di Lisabetta da Messina con la Canzone del basilico. La sua novella, difatti, termina con queste parole:

«Ma poi divenuta questa cosa manifesta a molti, fu alcuno che compose quella canzone che ancor oggi si canta:

Qual’esso fu lo malo cristiano
che chi mi furò la grasta, ecc.
»

D’altronde, non v’è dubbio che nel Due-Trecento nella città di Messina vi fossero diverse colonie di mercanti provenienti da San Gimignano, che aveva una fiorentissima arte della lana, e si ha notizia che gli Ardinghelli, mercanti sangimignanesi, intorno alla metà del Duecento si trasferirono da Messina a Napoli, proprio come fanno i fratelli di Lisabetta per sottrarsi alla pena per il loro reato.
Si ipotizza che nella leggenda popolare che ha ispirato sia la Canzone sia la novella, l’innamorato della giovane non si chiamasse Lorenzo, ma Nicola, da cui il termine vasenecóle, appunto “bacia-Nicola”.
In sostanza, il nostro basilico verdeggiante profuma dei baci e delle lacrime della sventurata Lisabetta da Messina.

 

Angela Liuzzi

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