Dietro la bianca colonna di fumo che ha annunciato l’elezione di Papa Leone XIV, al secolo il cardinale Robert Francis Prevost, si cela il volto meno visibile ma determinante del Conclave: quello degli equilibri faticosamente raggiunti, delle manovre silenziose e dei compromessi tessuti con maestria diplomatica. Un’elezione che, nei suoi passaggi più complessi, offre uno spaccato significativo dello stato presente della Chiesa cattolica, delle sue tensioni interne e della sua ricerca di sintesi.
Al principio dei lavori cardinalizi, il favorito apparente era Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, accreditato di un solido blocco iniziale stimato attorno ai 40 voti. Eppure, nonostante l’autorevolezza della sua figura e la forza della sua rete diplomatica, Parolin non è riuscito a consolidare il consenso, forse perché apparso poco carismatico. Alla seconda votazione, il suo sostegno si sarebbe fermato a quota 49, mentre il nome di Prevost cominciava a raccogliere consensi trasversali, toccando le 38 preferenze e acquisendo slancio.
La vera svolta, tuttavia, si è consumata sul fronte americano. Dopo anni di polarizzazione tra l’ala progressista – rappresentata da cardinali come McElroy e Gregory – e quella conservatrice, con figure come DiNardo e Dolan, si è fatta strada la consapevolezza che fosse giunto il tempo dell’unità. A guidare questa ricomposizione, con l’abituale abilità tattica, è stato proprio Timothy Dolan, l’arcivescovo di New York: sorridente in pubblico, strategico in privato, ha saputo convogliare attorno a Prevost un consenso che ha superato le barriere ideologiche.
La candidatura di Prevost si è imposta per la sua duttilità: statunitense di nascita ma missionario nella carne, francescano agostiniano con radici pastorali in Perù, curiale per esperienza ma sensibile alla dimensione delle periferie. Un ponte tra centro e margine, tra dottrina e accoglienza, che ha saputo rassicurare senza dividere. Non a caso, è stato proprio il Pontificio Collegio Nordamericano a fungere da incubatore strategico della sua elezione.
Contemporaneamente, andava maturando un’altra manovra, questa volta sul fronte asiatico. Il cardinale filippino Luis Antonio Tagle e Parolin avrebbero stretto un accordo: l’elezione dell’uno al soglio pontificio e la nomina dell’altro alla Segreteria di Stato. Ma questo patto, costruito a tavolino, è andato in frantumi dinanzi alla crescita imprevista del consenso attorno a un’altra figura filippina, quella di Pablo Virgilio Siongco David, vescovo di Kalookan. Stimato per il suo coraggio nel denunciare gli abusi del regime Duterte, David ha progressivamente oscurato Tagle, erodendo la sua autorità nell’episcopato asiatico. È stata questa rivalità interna a provocare una frattura, con conseguenze decisive: Tagle, nel timore di essere scalzato definitivamente, avrebbe preferito deviare il proprio pacchetto di voti, insieme a quello di Parolin, verso Prevost, siglando così un’alleanza di ripiego che si sarebbe rivelata risolutiva.
Anche il fronte europeo ha finito per contribuire, suo malgrado, all’epilogo. Nonostante l’Italia contasse ben 17 cardinali elettori, la frammentazione delle candidature (Parolin, Zuppi, Pizzaballa) ha reso il blocco nazionale inefficace. Come ha scritto con ironia La Stampa, “se hai quattro candidati e gli americani uno, perdi”. Di fronte all’impasse e ad un evidente calo di consenso, Parolin ha infine scelto di ritirarsi, lasciando che i suoi voti, e quelli promessi da Tagle, confluissero su Prevost.
Così è salito al soglio di Pietro un candidato che non era partito in testa, ma che ha saputo attendere, costruire, unire. Papa Leone XIV si presenta come una figura di equilibrio, ponte tra le anime della Chiesa, tra le Curie centrali e le periferie vive del mondo cattolico. Un missionario, un costruttore silenzioso di comunione, un pastore che porta con sé la promessa di una pace disarmata e e disarmante. Esattamente ciò di cui, oggi, la Chiesa ha più urgente bisogno.