U sorge ‘mbise

NOCI – Tanti nomi, tanti significati, tante forme, tanti impasti diversi. Eppure il dolce era uno solo e accontentava tutti i bambini nonostante non ci fossero tutte le varie prelibatezze che la pasticceria ci offre. Purtroppo oggi è quasi del tutto scomparso e in pochi ricordano con quale gioia si attendeva la Pasqua per mangiarlo. Un mondo antico e sicuramente diverso, il quale, però, ha permesso di far giungere fino ai giorni nostri alcune preziose informazioni per ricordarlo e riscoprilo, così da preservare la sua identità.

UN’ANTICA TRADIZIONE. Anticamente, durante il periodo di Pasqua, non c’erano le classiche uova di cioccolato, oggi disponibili in grandi quantità sugli scaffali dei supermercati. Infatti, un tempo, erano pochi i negozi e i bar adibiti alla vendita di cioccolato e questo aveva un prezzo nettamente maggiore rispetto ai giorni nostri, così da non poter essere acquistato dalle, per lo più povere, famiglie nocesi. Il cioccolato, quindi, era un bene raro ed unico, perciò, prima del Novecento, per festeggiare la resurrezione di Gesù, le varie famiglie preparavo un dolce degno sostituto delle nostre uova. A partire dagli anni della grande distribuzione di massa e del boom economico, però, il prezzo del cioccolato ha subito un notevole calo, diventando accessibile a tutti e andando così a sostituire le nostre più radicate tradizioni, come questo dolce che ha ancora tanto da dirci e da raccontarci.

TANTI PER UNO, UNO PER TANTI. Il biscotto non ha mai avuto una ricetta e degli ingredienti ideali. Il tutto, infatti, dipendeva dalle disponibilità economiche della famiglia che lo realizzava. I più poveri lo preparavano con l’impasto del pane o dei taralli, le famiglie più ricche che potevano permettersi il consumo dell’olio adoperavano la pasta frolla, mentre chi voleva esagerare usava la pasta reale con mandorle tritate, zucchero e uova. Preparato per lo più dalle nonne, l’impasto prendeva una forma a seconda di chi lo riceveva. Per i maschietti assumeva la forma di un cavalluccio, di un asinello o di un topolino, mentre per le femminucce era una bambolina, una borsetta, un cestino o un pulcino. Molte famiglie avevano “il modello” per confezionare il dolce, le quali molto spesso si rivolgevano ai fabbri per farsi realizzare dei tegami di varie forme. Altri, invece, utilizzavano un disegno di carta che veniva scambiato, oppure ci si affidava alle proprie mani e alla propria creatività. Al centro si era soliti inserire un uovo fresco, e il tutto era fatto cuocere nel forno a legna a cui i bambini dicevano «Fai attenzione a non farlo bruciare», aspettando che l’impasto dorasse e che l’uovo diventasse sodo. Una volta raffreddato, con pezzi di carbone spenti si disegnavano occhi, naso e bocca e il tutto si decorava, a seconda della disponibilità della famiglia, con u geleppe, ovvero la glassa, formata dallo zucchero, acqua e bianco dell’uovo battuto, anisini colorati (così chiamati perché sciogliendosi in bocca lasciavano un lieve sapore di anice), confetti e mandorle.

MA QUANDO SI MANGIA? Una volta pronto, il dolce non poteva essere subito mangiato, ma bisognava aspettare il sabato di Pasqua quando le campane suonavano a Gloria, ovvero appena si cominciava a cantare l’omonimo canto durante la messa. Purtroppo però, oggi i bambini non possono né ascoltare le campane suonare, né mangiare il dolce, perché la messa si svolge di notte, proprio mentre dormono. Ma non è stato sempre così. Originariamente la messa era celebrata di notte perché proprio di notte è risorto Gesù. O meglio, nessuno lo ha visto risorgere, cioè uscire dalla tomba, ma leggendo i Vangeli, prima le donne e tutti gli altri dopo, hanno trovato il sepolcro vuoto. Intorno al 1500, la celebrazione si spostò al mattino del Sabato Santo, perché non c’era la possibilità che c’è oggi di far luce la notte per celebrare convenientemente un rito molto solenne. A partire dagli anni cinquanta del secolo scorso, però, Papa Pio XII riformulò gli orari, riportando tutto come alle origini. Prima di quell’anno, quindi, le campane suonavano a Gloria intorno alle 11 del sabato mattina, segnalando ai bambini il momento esatto per poter mangiare il tanto sospirato dolce, facendo a gara a chi fosse il più veloce. Inoltre, il biscotto era scambiato anche tra due innamorati, con il ragazzo che donava il suo cavalluccio e la fidanzata che contraccambiava con la sua bambolina.

sorge-mbise-uovo

IL SIGNIFICATO DEL NOME. Per quanto riguarda il nome, solo a Noci il dolce assume la denominazione di sorge ‘mbise. Infatti, fuori dai nostri confini, il dolce prende il nome di a scarcédde, scarcella in italiano, di cui la più famosa è sicuramente quella barese. Se tale termine deriva dal gesto di scarcerare l’uovo dalla pasta, in riferimento al battesimo come unico mezzo che l’uomo possiede per liberarsi dal peccato originale, più complicato è capire il significato del nome nocese. In molti lo traducono con l’espressione topo impiccato. Una traduzione letterale che però non ha niente a che fare con i topi. Infatti, nella forma scritta, la prima parola non vuole significare topo, il quale nel nostro dialetto si pronuncia allo stesso modo, ma fa riferimento al verbo latino surget, ovvero risorgere. Il secondo termine, di contro, non è altro che la trasformazione dialettale del verbo latino pensum, participio passato del verbo pendere, col significato di stare appeso ed espiare, cioè accettare le proprie colpe. Unendo le due parole si ottiene l’esatta traduzione del dolce, ovvero chi ha espiato stando appeso, poi è risorto. Dato il periodo in cui si prepara, la figura di riferimento è facile da intuire. Inoltre, anticamente si pensava che il termine ‘mpise derivasse dal gesto di appendere il dolce ai chiodi delle casedde, in attesa che arrivasse il momento giusto per mangiarlo.

Quindi, per comprendere meglio l’importanza della tradizione che il nostro paese sta perdendo, riportiamo una poesia di Pietro Gigante del Centro Studi sui Dialetti Apulo-Baresi, intitolata “U sorge ‘mbise”.

Quanne a’ Paske sunuève a Gloreje,                                       Quando a Pasqua suonava il Gloria,

chésse è vère nann’è storeje,                                                     è la verità, non è una bugia,

se sunuèvene i campéne                                                             si suonavano le campane

se battévene pure i méne;                                                          e si battevano anche le mani;

 

i meninne minz’a stréde,                                                             I bambini per le strade,

eppure mu nesciune u créde,                                                     eppure oggi nessuno più ci crede,

èrene allégre e gridazzére                                                           erano allegri e li sentiva gridare

da muntuagne fin’o muére.                                                       dalla montagna fino al mare.

 

Scèvene e casere cu surrise                                                         Andavano a casa con il sorriso

che mangiarse u sorge ‘mbise,                                                  Per mangiarsi u sorge ‘mbise,

cudde Criste ch’è resorte                                                             quel Cristo che è risorto

pozza dé ‘na bella sorte.                                                              il quale può darci un bel destino.

 

U facèvene ca’ farine                                                                    Il dolce si realizzava con la farina,

preparéte subete a matine                                                         preparato di prima mattina

èrene tutte bèlle fatte                                                                  ed era fatto molto bene

chi figure tutte adatte;                                                                 con le figure appropriate a chi lo riceveva;

 

e meninne u cavallucce,                                                               ai bambini un cavalluccio,

ca po’ ère sèmpe nu ciucce,                                                        il quale assomigliava sempre a un ciuccio,

e menènne ère na bambele                                                        alle bambine era una bambola

che na vèste fatte de scampele                                                 con il vestito fatto di rimasugli

e che l’uève minza-minze                                                            e con l’uomo posto al centro

aggiustuéte che tutt’i sinze;                                                       bloccato per bene;

 

èrene iove de gaddine                                                                  Erano uova di gallina

iove fréscke sènza prucine                                                          uova fresche senza pulcino

se cuscèvene minz’a paste                                                          si cuocevano con l’impasto

ti mangive e decive baste.                                                          te le mangiavi e dicevi basta.

 

Nanne stève ciucculuète                                                              Non c’era la cioccolata

comm’a jire e josce è stète                                                          Come c’è oggi,

e a sorprèse dove stève?                                                             e la sorpresa dov’era?

U sorge ‘mbise ce bastève!                                                         U sorge ‘mbise ci bastava.

 

Bona Paska a tutte vu                                                                  Buona Pasqua a tutti voi

u sorge ‘mbise nu mangème nu!                                              E u sorge ‘mbise lo mangiamo noi

 

(Fonti: Oltre alle informazioni fornite da Pietro Gigante, alcune notizie sono state estrapolate dagli articoli degli anni ’70 e ‘80 del Noci Gazzettino, da un racconto del 2000 di una lezione tenutasi nella scuola materna Cingranella, oggi scuola dell’infanzia Seveso, e dalla pagina di riferimento alla “scarcella” di barinedita.it)

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